Come sarà la pediatria di domani? Quella in cui è possibile – grazie per esempio all’analisi immediata di migliaia di modelli legati ad episodi clinici reali – predire il decorso di una malattia, anziché soltanto ipotizzarlo? O individuare l’efficacia reale di una cura prima ancora di cominciarla grazie all’analisi del genoma?

O ancora di stampare di routine in 3D un arto, o uno stent, per verificare prima dell’intervento chirurgico se è preciso millimetricamente o se deve essere modificato prima di far entrare un bambino in sala operatoria? Signori, benvenuti nel mondo tecnologico della pediatria 4.0.

Dove i medici restano fondamentali, con il loro stetoscopio che rischia di apparire obsoleto di fronte all’intelligenza artificiale. Ma che anacronistico invece non è. Perché sempre da quello strumento si parte per ipotizzare. Certo, sempre più ci si appoggia alle macchine: per vedere particolari che l’occhio umano non potrebbe distinguere o avere suggerimenti su algoritmi matematici che nessuna mente umana sarebbe in grado di calcolare in tempi ragionevoli. Ma lo stetoscopio è il simbolo di un medico che non teme di essere soppiantato dall’intelligenza artificiale ma che, anzi, è convinto di poterla gestire – e asservire – ai bisogni dei piccoli pazienti di un futuro vicino.

Anzi, per certi versi neanche tanto futuro. Perché alcune di queste cose si utilizzano già, almeno nei 50 ospedali della rete dell’Ispi (l’International Society for Pediatric Innovation), una giovane associazione internazionale nata negli Stati Uniti che punta a spalancare le porte degli ospedali all’innovazione.

Per l’Italia ne fa parte l’ospedale Bambino Gesù di Roma, che ha appena ospitato il congresso “Shaping the future of pediatrics”. Modella, dai forma – appunto – al futuro della pediatria. Già oggi per esempio i bambini con cuore artificiale possono lasciare l’ospedale e tornare a casa propria, giocare con gli amici, mangiare a tavola con la famiglia. Perché è un piccolo cerotto a “comunicare” ai medici in ospedale i suoi parametri clinici, che vengono continuamente monitorati. La cosa ha vantaggi difficili persino da spiegare, sulla qualità della vita di un piccolo paziente e della sua famiglia. Vuol dire, semplicemente, vivere come un bambino qualunque che quel cuore artificiale non ce l’ha. E far viaggiare i dati, anziché le persone.

Terapia. Ed è ancora la tecnologia che soccorre se si deve individuare la terapia più corretta per una malattia rara o un tumore. “Prima procedevamo per livelli successivi – racconta Alberto Eugenio Tozzi, responsabile di medicina digitale e telemedicina del Bambino Gesù e responsabile scientifico del congresso – si tentava con una prima terapia e, se non funzionava, si passava al secondo livello. Oggi si fa subito un esame genetico, il cui costo si è abbassato ed è quasi equivalente a quello di un emocromo, e siamo in grado di individuare subito la strada giusta. Con maggiore efficacia, risparmiando stress al malato. E denaro”. Promettente anche la strada del trapianto di microbioma, utilizzando le feci. “Oggi usiamo questa tecnica soprattutto per alcune infezioni molto resistenti, come il Clostridium difficile – ragiona Tozzi – ma il ruolo del microbioma è molto importante sia per le malattie infiammatorie intestinali, come il morbo di Crohn. Sia, sembrerebbe, per altre malattie infiammatorie, come l’artrite reumatoide. Nei bambini con Crohn la flora batterica è completamente diversa: dobbiamo capire se è solo un segnale della malattia o se il microbioma c’entra con la malattia. E allora il trapianto diventerebbe terapia a tutti gli effetti”. Ma non solo. Al convegno romano si è parlato anche dell’uragano Irma, che ha messo in ginocchio parte degli Stati Uniti, e del terremoto di Città del Messico. Ma solo perché sono le catastrofi più recenti. E questo perché, in situazioni di questo tipo, servirebbe un sistema di risposta rapido, che non abbiamo. “Un sistema che in quindici minuti sia in grado di intervenire su un’emergenza – continua Tozzi – inviando, con un drone, strumenti, farmaci, o telecamere. Tutto in tempi rapidissimi”.

Il 3D. E che dire poi delle chance offerte dalle stampanti tridimensionali? Vantaggi talmente tanto evidenti che – vincendo, sottolinea Tozzi, la naturale ritrosia della classe medica per l’innovazione – molti ospedali si stanno dotando di un centro stampa 3D. Che costa non cifre iperboliche, ma poche centinaia di migliaia di euro. “Con una stampante 3D si possono costruire modelli chirurgici, con il vantaggio della tridimensionalità – racconta Tozzi – e persino un bambino intero con tutti gli organi. In un modello 3D virtuale al computer, per esempio, si può inserire uno stent per verificare se va bene il calibro, l’inclinazione e guadagnare un approccio chirurgico più preciso, con tempi dimezzati e maggiore sicurezza”. Inoltre, non sarà fondamentale, ma un modello di plastica tridimensionale serve a “parlare” meglio con i bambini. Mostrare concretamente, per esempio, un modello del loro cuore, per spiegare che cosa faranno i medici per ripararlo, o un piccolo cervello per far vedere dov’è il tumore e come sarà aggredito con estrema precisione. Per coinvolgerli e forse migliorare anche la risposta alle cure.

Pediatria. Ma il pediatra di oggi è pronto ad affrontare la sfida della tecnologia? O, piuttosto, la teme? “La tecnologia è uno strumento formidabile – premette Alberto Villani, presidente Sip, società italiana di pediatria – ma è indispensabile una maggiore preparazione del medico e una rivalutazione del rapporto umano, che mette sempre al centro il paziente. La diagnosi è fatta al 95% dall’anamnesi, da quello che il paziente ti racconta e che tu medico riesci a ottenere, e dall’esame clinico. Entrambe le cose non potranno essere sostituite da nessuna macchina”.

http://www.repubblica.it/salute/medicina/2017/09/28/news/digital_baby_il_pediatra_e_sul_monitor-176752086/