Scoperti 17 geni malattia grazie alle analisi genomiche. Seguiti circa 10.000 casi
Sono circa 350 i bambini affetti da malattie rare che hanno ricevuto una diagnosi dopo un’attesa media di 7 anni, grazie ai medici e ai ricercatori del Bambino Gesù. Si tratta di circa il 50% dei pazienti entrati nel programma dedicato ai malati rari e avviato due anni fa dall’Ospedale della Santa Sede. In occasione della Giornata Mondiale delle Malattie Rare, che si celebra il 28 febbraio, il Bambino Gesù rende noti i risultati del lavoro sostenuto dalla campagna Vite Coraggiose, dedicata dalla Fondazione Bambino Gesù onlus alla ricerca e alla cura delle malattie genetiche senza nome, orfane di diagnosi.
«Sono risultati di cui siamo particolarmente orgogliosi – commenta il direttore scientifico Bruno Dallapiccola – ottenuti grazie alla capacità di presa in carico dei pazienti da parte dell’Ospedale, all’approccio clinico multidisciplinare, all’apporto delle tecnologie di sequenziamento genetico di ultima generazione e alla capacità di fare rete che mette insieme le diverse realtà attive nel mondo delle malattie rare, tanto a livello nazionale, quanto a livello europeo».
Le malattie rare, complessivamente 7/8000, per definizione colpiscono meno di 1 persona ogni 2000, ma complessivamente configurano un problema di dimensioni sociali. Si stima che nel mondo ne siano affette circa 300 milioni di persone, 30 milioni in Europa, probabilmente non meno di 1 milione in Italia. Circa la metà sono pazienti pediatrici, e il 30% di essi ha un’attesa di vita inferiore ai 5 anni. Circa il 90% delle malattie rare ha un’origine genetica. Il ritardo medio nella diagnosi varia tra i 2 e i 7 anni. Due pazienti su 3 ricevono inizialmente una diagnosi sbagliata.
Con i suoi circa 10.000 pazienti rari arruolati nella Rete Regionale Malattie Rare, l’Ospedale ha la più alta casistica nazionale di pazienti pediatrici. Il Bambino Gesù ospita la sede italiana di Orphanet, il più grande database al mondo per le malattie rare, e fa parte di 15 Reti di eccellenza europee (European Reference Network) impegnate nella condivisione delle conoscenze su queste patologie e al coordinamento delle cure sanitarie.
Negli ultimi anni, al Bambino Gesù, sono stati scoperti 17 nuovi geni malattia (i geni cioè la cui mutazione è causa dell’insorgere della patologia) e sono state identificate 16 nuove malattie in precedenza non ancora classificate. Circa 2 anni fa la Fondazione Bambino Gesù onlus ha deciso di dedicare la sua principale campagna sociale, Vite Coraggiose, alla ricerca di fondi per la ricerca in questo ambito, coinvolgendo aziende e privati. E l’Ospedale ha aperto il primo ambulatorio dedicato ai pazienti “rari” senza diagnosi.
IL PERCORSO PER I PAZIENTI SENZA DIAGNOSI
Il servizio offerto dall’ambulatorio consente alle famiglie di ricevere un primo parere diagnostico qualificato a distanza, senza recarsi in Ospedale, con risparmio di tempo e risorse per le famiglie già gravate dai costi di queste patologie croniche e invalidanti. Un gruppo multidisciplinare di specialisti esamina le informazioni ricevute via email e valuta la necessità di prescrivere o meno ulteriori indagini. Quando non è possibile fornire una risposta diagnostica certa in questa prima fase, viene richiesta una valutazione di persona, eventualmente integrata da riunioni di teleconsulenza realizzate, a cadenza bimensile, con i colleghi di altre sedi, italiane e internazionali. Al termine di questo percorso clinico, una percentuale significativa dei pazienti che restano senza diagnosi viene avviata alle analisi genomiche che hanno permesso in circa il 50% dei casi una diagnosi.
«Questo approccio di ricerca traslazionale – spiega il professor Bruno Dallapiccola, direttore scientifico del Bambino Gesù – ha diverse ricadute pratiche. In primo luogo consente alle famiglie di uscire dall’isolamento della non-diagnosi e di sentirsi parte della comunità; la conoscenza delle basi biologiche della malattia permette di fornire una consulenza genetica mirata, di definire gli eventuali rischi riproduttivi e di implementare, se necessario, programmi di monitoraggio delle gravidanze a rischio; consente inoltre di attivare programmi di presa in carico più appropriati e, in qualche caso di avviare terapie di precisione. Mi auguro che il modello sperimentato con successo dal nostro Ospedale possa essere replicato in altri centri clinici italiani e che le analisi esomiche entrino nei Lea, nell’interesse dei pazienti, delle loro famiglie e più in generale nella comunità dei malati rari».