
Dopo la pet therapy, ora alla Città della Salute di Torino sbarca la “doll therapy”, la terapia della bambola che sarà utilizzata per la prima volta sui pazienti affetti da demenze, presso la geriatria dell’ospedale Molinette.
«E’ accaduto che un paziente con demenza senile degente in una Rsa riprendesse a parlare, a pronunciare parole che la malattia aveva cancellato dalla memoria grazie alla “terapia della bambola” o “doll therapy”». A raccontalo è la dottoressa Patrizia D’Amelio, ricercatrice presso il reparto di geriatria e malattie metaboliche dell’osso dell’ospedale Molinette, diretto dal professor Giancarlo Isaia, che venerdì 4 maggio presenterà il nuovo progetto, al momento sperimentale, che partirà a fine maggio e sarà dedicato ai pazienti acuti del reparto geriatrico.
Il Distretto Leo 108, che ha mostrato interesse alla “doll therapy”, donerà al reparto sei bambole “Empathy dolls” e la consegna avverrà venerdì alle 14,30 nell’aula Fabris (reparto di geriatria, primo piano) e sarà preceduta da un’introduzione sul significato clinico della terapia tenuta dalla dottoressa D’Amelio.
I vantaggi della “doll therapy”
La limitata efficacia delle terapie farmacologiche e la plasticità del cervello umano sono le ragioni più importanti del crescente interesse per le terapie non farmacologiche, come ad esempio la “doll therapy” o “terapia della bambola”.
L’utilizzo della “doll therapy” nasce in Svezia dall’idea di Britt Marie Egedius Jakobsson, psicoterapeuta, che ha usato la bambola per stimolare l’empatia e le emozioni del proprio figlio affetto da autismo. Da quel momento in poi, e con uno sviluppo sempre maggiore, le bambole dedicate alla terapia come le “empathy doll” diventano in tutta Europa un oggetto simbolo nella relazione di aiuto: verranno usate per stimolare l’emotività e l’empatia di bambini e adulti e successivamente come elemento di cura e terapia per i malati di demenza.
«Dati preliminari dimostrano come, nei pazienti dementi degenti in Rsa la terapia con la bambola sia stata utile nel ridurre i sintomi di aggressività e il carico infermieristico in pazienti lungodegenti – spiega oggi la dottoressa D’Amelio -; inoltre si sono evidenziati effetti migliori dell’approccio farmacologico tradizionale nel sedare i pazienti agitati, senza avere effetti collaterali. Proprio per la sua potenzialità, questa terapia non farmacologica può essere considerata un metodo integrativo, piuttosto che alternativo ma anche uno strumento di riabilitazione in grado di aiutare a ridurre e compensare le compromissioni funzionali degenerative».
Una terapia efficace anche per affrontare l’ansia e la depressione
Vari studi hanno dimostrato che la “terapia della bambola” può essere utilizzata sia con persone che hanno problemi del comportamento, che in situazioni di ansia, agitazione o al contrario depressione ed apatia, per incentivare la relazione e per contenere gli sbalzi d’umore.
La terapia della bambola è un trattamento di tipo non farmacologico che viene applicato in area geriatrica per il trattamento dei disturbi comportamentali nella persona affetta da demenza.
Le sue azioni possono realizzarsi sia a livello preventivo che di cura, attraverso il supporto alla salute che può derivare da alcuni benefici dell’intervento organizzato sistematicamente e professionalmente, quali: la modulazione di stati d’ansia e di agitazione e delle loro manifestazioni sintomatiche come aggressività, insonnia, apatia o wandering; la conseguente possibilità di ridurre sensibilmente il ricorso ai sedativi; la riduzione di condizioni di apatia e depressione caratterizzata da disinteresse ed inattività totale; la capacità di rispondere ai bisogni emotivi-affettivi che, malgrado il deterioramento cognitivo, rimangono presenti ma non sono più soddisfatti come in età precedenti; la possibilità di ostacolare il deterioramento di alcuni abilità cognitive e di sostenere l’utilizzo di prassi motorie che fungono da stimolo delle abilità residue.
I numeri delle demenze nella popolazione anziana
L’aumento della popolazione anziana e dei problemi legati all’invecchiamento ha colto impreparati tanto le famiglie quanto le strutture preposte agli interventi socio-sanitari: la popolazione italiana dal 2001 al 2011 ha subito un forte incremento demografico, crescendo di più di due milioni di unità, grazie al miglioramento della spettanza e della qualità della vita.
Secondo le stime dell’Istat (rapporto annuale 2017) se nel 2001 gli ultrasessantacinquenni costituivano circa il 18% della popolazione, oggi raggiungono il 22% del totale e nel 2043 oltrepasseranno il 32%.
L’aumento della spettanza di vita media ha portato con sé una maggior diffusione delle patologie associate all’invecchiamento. Tra queste la diffusione delle demenze si presenta come un fenomeno sociale drammatico che incide pesantemente sulla vita del singolo malato e della sua rete familiare.
L’Alzheimer’s disease international ha stimato a livello mondiale per il 2017 quasi 10 milioni di nuovi casi di demenza all’anno (di cui circa 5 di Alzheimer), cioè un nuovo caso ogni 3,2 secondi. Si tratta di una crescita che porterà ad una quota complessiva di 74,7 milioni di malati nel 2030 e 131,5 milioni nel 2050.
I numeri di questa “epidemia” parlano chiaro e si traducono in costi sia sociali che economici estremamente rilevanti. I costi diretti dell’assistenza in Italia ammontano ad oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. Nel nostro Paese sono 1,2 milioni le persone affette da demenza.
Liliana Carbone