Ingoiare una pillola di zucchero e sentirsi meglio. È questo, in estrema sintesi, l’effetto placebo: l’attribuire capacità terapeutiche a un farmaco finto, che è privo di principi attivi. Finora però si era convinti che il placebo avesse successo solo perché il paziente veniva ingannato, ovvero credeva di essere curato veramente.

Ma sembra non sia così. A suggerirlo uno studio delle università di Harvard e di Basilea, in Svizzera, pubblicato su Pain, che ribalta il concetto precedente: il placebo è ancora più efficace se il soggetto viene informato di quello che sta assumendo.

Lo studio. I ricercatori hanno studiato 160 volontari chiedendo loro di appoggiare un braccio su una piastra che progressivamente si riscaldava. Quando i soggetti raggiungevano la personale soglia del dolore dovevano ritirare il braccio. Successivamente, a un terzo di loro è stata somministrata una pomata placebo che però era stata spacciata per lidocaina (anestetico locale), a un altro terzo è stata data una pomata placebo accompagnata da un discorso di quindici minuti sui positivi effetti del farmaco inerte in determinate situazioni. All’ultimo gruppo di controllo è stata data la crema placebo alla luce del sole, ma senza alcuna spiegazione supplementare.

Risultati. Il gruppo in cui i ricercatori hanno riscontrato la più grande riduzione della sensazione di dolore e fastidio è stato il secondo. Le conclusioni sono chiare: non nascondere il placebo, ma anzi spiegarne gli effetti benefici, sembra essere molto meglio che ingannare i pazienti. “Conosco bene lo studio, visto che sono stato uno dei revisori, e dimostra che esiste una componente dell’effetto placebo del tutto inconscia – spiega Fabrizio Benedetti, professore di neuroscienze e fisiologia all’università di Torino, autorità mondiale in fatto di placebo, che studia dagli anni Novanta -. In altre parole, anche se si sa che non è un farmaco vero, l’effetto terapeutico è presente. È un po’ come quando si guarda un film dell’orrore. Si sa che è tutto finto, eppure si ha paura. Così per il placebo. Si sa che è tutto finto, eppure si sta meglio”.

Cosa succede. Ma come possono una crema a base di acqua o una pillola di zucchero attivare dei miglioramenti oggettivi in un paziente con sintomi veri? “Ovviamente non è lo zucchero ad acquisire proprietà terapeutiche”, prosegue Benedetti – ciò che conta è il contesto psicosociale in cui si trova il paziente (per esempio il medico che lo segue, le sue parole, i suoi strumenti). È questo contesto ad avviare dei meccanismi di aspettativa di miglioramento che, a loro volta, attivano delle sostanze prodotte dal nostro cervello, per esempio oppioidi e cannabinoidi, che possono fare diminuire il dolore”.
È proprio in base a questo meccanismo che il placebo agisce in modo più efficace su tutte quelle condizioni la cui componente psicologica è importante. Per esempio, elenca il professore, il dolore, la performance motoria, l’ansia, la depressione.

Un altro studio, di pochi mesi fa, aveva già suggerito che il placebo, senza la sua componente ingannevole, avesse un impatto molto positivo su alcune condizioni come rinite allergica, mal di schiena, deficit dell’attenzione e depressione.
Allora perché non prescrivere a soggetti con questo tipo di disturbi dei farmaci placebo? In realtà molti medici di base già lo fanno. In Germania sono il 50%, in Inghilterra più di un terzo, secondo le indagini condotte tra i sanitari. Per l’Italia non ci sono stime affidabili. La pratica rimane comunque controversa, perché finora prevedeva il raggiro del paziente, convinto di assumere farmaci veri.

“È in corso un dibattito etico molto acceso su questo argomento – ammette Benedetti -. La mia opinione è che un placebo possa essere usato solo in certe circostanze, per esempio se la sua somministrazione porta a una riduzione di farmaci pericolosi come i narcotici”.

http://www.repubblica.it/salute/ricerca/2017/10/13/news/placebo_percezione_del_dolore-177417003/