Massimo ha 57 anni e viaggia con la sua moto per le vie di una piccola città di provincia. Va di fretta. A un incrocio non presta attenzione: una macchina sta arrivando a forte velocità e non rispetta lo stop. Trenta secondi più tardi Massimo è riverso sulla strada, incosciente.

Viene chiamato subito il 118 e i medici capiscono che il motociclista è in coma, con emorragie gravi a livello del torace e dell’addome, non riesce a respirare, e ha anche delle fratture multiple complesse.

Massimo deve raggiungere un ospedale il prima possibile; ma allo stesso tempo la sua situazione è così grave che non basta un pronto soccorso qualunque, ha bisogno di cure complesse che solo un centro specializzato può garantire. «In casi come questi il personale che gestisce l’emergenza deve prendere una decisione sulla base del tempo impiegato a raggiungere il pronto soccorso ma anche delle strumentazioni e delle competenze di cui ha bisogno il paziente », spiega Giovanni Gordini, direttore della Rianimazione, emergenza territoriale 118 di Bologna. Massimo verrà portato in un centro con grandi volumi di attività e quindi maggiore competenza (Hub), anche se magari non sarà quello più vicino.

Gianna invece ha 84 anni, vive in campagna, e ha una forma di demenza per cui ha bisogno di essere sorvegliata di continuo. Un giorno cade dalle scale e quando arrivano i soccorsi è in coma. Dopo averla intubata l’ambulanza la porta nel centro più vicino, che è a bassa complessità di cura (Spoke). Una volta stabilizzata, i medici si accorgono che le sue condizioni potrebbero peggiorare e che potrebbe aver bisogno di un’operazione di neurochirurgia. E i parenti insistono per fare di tutto. Il trauma non è uguale, che fare quindi? Trasferire Gianna in un Hub dove sarebbe possibile eseguire l’operazione chirurgica o lasciarla nello Spoke e monitorare la situazione?

Il personale del 118 agisce secondo le indicazioni della Rete traumi, l’organizzazione per la gestione di questo tipo di emergenze che ogni regione dovrebbe istituire: oltre all’Emilia-Romagna, a oggi però risulta che solo Lombardia, Veneto, Toscana, Lazio, Piemonte e Liguria ne abbiano una. Marche e Umbria sono regioni troppo piccole per avere bisogno di un’organizzazione in questo senso, mentre, come spesso accade, a essere completamente disorganizzate sono le regioni del Sud. La rete traumi, in poche parole, definisce quali sono i centri che devono trattare i casi più gravi (Hub) perché hanno attrezzature adeguate e diversi specialisti – dal chirurgo al neurologo – che garantiscono 24 ore su 24 il servizio, e quelli a cui possono essere portati i pazienti meno gravi (Spoke). Un dettato che a volte non è semplice trasformare in realtà, perché si scontra con le difficoltà organizzative ma anche con alcune questioni etiche. Tanto per fare un esempio: una volta che Massimo avrà ricevute le cure urgenti più adeguate e sarà in condizioni stabili dovrà essere trasferito in una struttura Spoke, liberando così un letto per chi invece è in condizioni di maggiore pericolo. Magari proprio per Gianna.

«Tutto ciò richiede programmazione, condivisione, applicazione e monitoraggio di questo modello di funzionamento alla luce del principio etico di giustizia distributiva », sottolinea Giuseppe Gristina, già coordinatore del gruppo di Bioetica della Società italiana di anestesia, rianimazione e terapia intensiva. Perché la sensazione per tutti è quella che in un Hub si venga meglio curati e quindi, una volta ottenuto un letto, non si è disposti a cederlo. E un sistema di questo tipo funziona se c’è una comunicazione medico-paziente o medico-familiari aperta, franca ma soprattutto ispirata alla fiducia. «Dobbiamo spiegare che un Sistema integrato di assistenza al trauma funziona proprio su questo principio e sulla base di un’etica organizzativa
che mira a rendere applicabile ad ogni caso il trattamento più appropriato», conclude Gristina. Peccato che a usufruire di un sistema così siano solo la metà dei cittadini italiani, più o meno da Roma in su.

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