C’è una non piccola differenza tra quanto chiede Mdp – l’abolizione pura e semplice del superticket sulla sanità – e quanto si afferma nella risoluzione di maggioranza sul Def, che parla di una «revisione graduale» di questo balzello.
Del resto, anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin lo dice chiaramente: «Stiamo lavorando, ormai da più di un anno ad una ridefinizione del superticket in Italia in modo più equo. Abbiamo la ricetta. Naturalmente dobbiamo fare un attento esame di bilancio. È una questione di risorse».
Appunto, è una questione di risorse. Secondo alcune stime un’abolizione totale e generalizzata del «superticket» di 10 euro, che va pagato su ogni ricetta medica per esami diagnostici o specialistici, costerebbe alle casse dello Stato 600-700 milioni. Altri parlano di almeno 830 milioni. Ma un dato preciso sembra non avercelo nessuno, per questo «ticket sui ticket» introdotto nella draconiana manovra economica del governo Monti del 2011. Per coprire il taglio di 800 milioni dal Fondo sanitario nazionale, si decise di mettere ancora le mani nelle tasche dei cittadini, come già si faceva e si fa con i «normali» ticket.
Un prelievo che le Regioni applicano ai loro assistiti in modo non omogeneo. Il superticket non si paga in Sardegna, Val d’Aosta, Basilicata, e a Trento e Bolzano (che ne assorbono l’onere nel loro bilancio). Si paga in Lazio, Friuli, Liguria, Marche, Molise, Abruzzo, Puglia, Sicilia e Calabria. In Campania, Piemonte e Lombardia viene applicato in maniera progressiva all’aumentare del valore della ricetta, mentre viene modulato in base al reddito in Veneto, Emilia Romagna, Umbria e Toscana.
Quel che è certo è che il «superticket» di 10 euro non solo è iniquo, perché come gli altri ticket pesa proporzionalmente di più su chi ha redditi più bassi, e meno sui più ricchi. E parliamo di tanti soldi: nel 2015 per poter fruire della sanità pubblica gli italiani hanno sborsato (oltre alle tasse) 2,8 miliardi di euro di ticket. Ma quel che è peggio in alcuni casi (sommandosi agli altri ticket) diventa un obiettivo disincentivo all’utilizzo della sanità pubblica, rendendo quasi più conveniente andare dal privato. Secondo una rilevazione di Cittadinanzattiva, l’esame delle urine nel privato costa circa 2,17 euro, mentre nel pubblico arriva a 16,17 euro; l’emocromo in privato costa circa 9,89 euro, nel pubblico 20,89 euro. Oppure, impone di rinunciare del tutto a visite o analisi, come purtroppo fanno sempre più cittadini. E peraltro i dati mostrano che a chiedere troppo (ticket), alla fine si incassa di meno: gli introiti da ticket sono diminuiti del 9,4% nel periodo 2012 -2015.
E attenzione: c’è anche il rischio concreto che la toppa sia peggiore del buco. Tra le ipotesi ventilate dal governo per sostituire il mancato ammanco dall’abolizione – se n’è parlato in diversi incontri tra il ministero della Salute e gli assessori regionali alla Sanità – c’è l’ipotesi di sostituire un ticket con un altro. Un nuovo ticket dai contorni paradossali: colpirebbe infatti le persone che si presentano per farsi curare in Pronto Soccorso e che vengono valutate nel triage con un «codice verde». Quello delle urgenze minori, traumi o fratture che non interessano le funzioni vitali ma devono essere curate. Insomma, una tassa sulle gambe rotte. Una alternativa che viene definita «demenziale» da Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato.
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