La malattia da reflusso gastroesofageo è controllabile, pur dovendo accettarla «ad libitum»: con un’inevitabile ripercussione sulla qualità della vita. Motivo per cui, nonostante i progressi registrati negli ultimi dieci anni, prima di ricorrere all’opzione chirurgica occorrerebbe pensarci a fondo.

In discussione non è la sicurezza dell’intervento, bensì l’efficacia: il rischio di recidiva è ancora piuttosto alto, così come di conseguenza quello di non poter interrompere la terapia farmacologica.  I pazienti lamentano un bruciore alla bocca dello stomaco (dovuta all’azione dell’acido cloridrico) e il rigurgito del bolo alimentare (a volte fino alla bocca) nelle due ore successive al pasto. L’operazione, che andrebbe comunque sempre eseguita in centri con un elevato volume di esperienza, consiste nella ricostruzione della naturale barriera del cardias: la valvola che regola l’afflusso di cibo dall’esofago allo stomaco e che nelle persone colpite dalla malattia da reflusso non controlla a dovere la risalita dei succhi gastrici.

Ma quando la malattia da reflusso è causata da un’alterata motilità nell’esofago o nello stomaco, in realtà, la chirurgia non è quasi mai risolutiva. Si stima che in Italia il reflusso gastroesofageo colpisca una quota compresa tra otto e dieci milioni di connazionali. Di questi, all’incirca il cinque per cento risulta candidato al trattamento chirurgico: dunque tra quattrocento e cinquecentomila persone. La valutazione spetta al gastroenterologo, che può raccomandare l’intervento a chi non risponde alla terapia farmacologica, a chi la segue sviluppando complicanze oppure a pazienti con meno di quarant’anni che non ne vogliono sapere di dover seguire cicli di terapie per tutta la vita.

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